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La Vita

Vita di San Nicolò Politi

Premessa

 

La vita di San Nicolò Politi è stata tramandata nei secoli dalla memoria viva ed ininterrotta di generazioni di devoti alcaresi ed adraniti. Ad Alcara li Fusi, ad esempio, non vi è, ancora oggi,  adulto o, anche, bambino,  che non conosca almeno i fatti salienti della vita del nostro amato santo. Accanto alla tradizione orale, tuttavia, è fiorita sulla splendida figura umana e cristiana di san Nicolò una ricchissima produzione agiografica, sia in prosa che in versi.

La prima opera scritta che ci parla del nostro santo è sicuramente l’inno, riportato dal Caietani,[1] attribuito al padre spirituale di Nicolò Politi,  quel Padre Cusmano, detto il Teologo, che, come egli stesso attesta nell’inno, conobbe “il suo grande zelo di penitenza”. Esso, di fatto una preghiera, è intriso di riferimenti biografici relativi agli eroici gesti di penitenza e sacrificio compiuti da Nicolò per amore verso  Dio. Sempre il Caietani riporta la prima biografia nota di San Nicolò, pubblicata nel 1657, sulla scorta di uno scritto recapitatogli dagli alcaresi, facendola risalire ad una fonte contemporanea del santo stesso, che egli definisce “Anonimo Monaco Contemporaneo” e finisce con l’identificare con lo stesso padre Cusmano [2].

Del 1652, precedente di cinque anni rispetto al testo del Caietani, è, invece, la prima vita in versi di San Nicolò, a noi giunta, scritta in siciliano da un poeta alcarese, Placido Merlino [3]

La vita

            Nicolò Politi nacque nella città di Adernò, oggi Adrano, grosso centro della provincia di Catania,  sotto il regno di Ruggero II, presumibilmente nel 1117 [4], da una illustre famiglia, quella dei Politi. La tradizione ci riporta anche il nome dei genitori, Almidoro ed Alpina. Si narra che i due, essendo già avanzati in età e non potendo avere un figlio, per voto, si recarono in pellegrinaggio ad Alcara, piccola cittadina del messinese, situata sul versante settentrionale  dei monti Nebrodi, dove si svolgeva una grande festa in onore di San Nicolò di Mira, la cui chiesa, di recente restaurata, è ancora oggi visibile nei pressi del quartiere posto a ridosso del Calvario. I due sposi promisero al Santo Vescovo che avrebbero chiamato il figlio con il suo nome. Così avvenne, il bimbo venuto alla luce qualche tempo dopo, venne chiamato Nicolò. Immaginiamo quale dovette essere la cura con cui i due genitori curarono l’educazione del figlio, loro unico erede, destinato a continuare i fasti del casato. Ciò, peraltro, è testimoniato dal fatto che nelle mani di Nicolò, dopo il rinvenimento del suo corpo,  fu ritrovato un libro di preghiere, scritto in greco, che l’eremita utilizzava per le sue orazioni quotidiane.  Nicolò, però, non si limitò a crescere solo nei valori riconducibili al buon nome della famiglia, bensì compì un cammino di crescita anche nella vita spirituale, evidentemente guidato da ottime guide  che lo introdussero all’amore profondo per Cristo, a tal punto che, alle soglie della giovinezza, egli maturò una scelta radicale e profonda su cui scommettere  la sua esistenza, la scelta dell’abbraccio totale con Cristo, da vivere in un rapporto privilegiato e ininterrotto, quello della contemplazione continua del suo mistero d’amore verso l’uomo ed il creato: Nicolò decise di fare l’eremita, distaccandosi dal mondo e dalle sue lusinghe. E che lusinghe dovevano essere quelle che si prospettavano per il giovane adranita: la ricchezza, il prestigio sociale, il rispetto, la stima di tutti ! Per ultima si era aggiunta anche la prospettiva di un matrimonio con una giovane sua pari, un passaggio che il padre riteneva naturale e scontato per le aspettative che riponeva sul figlio. Ma tutto era destinato ad infrangersi di fronte ad un amore più grande “che le grandi acque non possono spegnere né  i fiumi  travolgere” [5], l’amore di Dio.

            Lo scontro con i genitori, in particolare con il padre, dovette essere durissimo, troppo incomprensibile doveva apparire al vecchio Almidoro quella scelta, soprattutto in considerazione delle speranze coltivate da una vita. Inevitabile fu, dunque, la rottura, quanto dolorosa, per il povero ragazzo che amava profondamente i suoi cari genitori ma aveva maturato la consapevolezza che neppure quell’amore doveva precludergli di immergersi nell’amore di Dio. Stabilita dal padre la data delle nozze, Nicolò decise, allora, di  rompere gli indugi e di fuggire, lasciando di notte, di nascosto, la casa paterna. Su questo episodio sono naturalmente abbondanti i commenti e sono fioriti sia gli scritti che le opere d’arte. Ci è gradito, in questo scritto, riportare un testo che cerca di ricostruire quali dovettero essere i sentimenti di Nicolò nell’abbandonare i propri cari. Si tratta della ricostruzione del testo della lettera d’addio che il giovane lasciò agli affranti genitori:

            “ Caro padre e signore, rasciugate le lacrime, vi prego, poiché a nozze migliori m’invio. Non posso confermare gli sponsali con esseri terreni, perché l’anima mia è già sposata col Re del Cielo. Quindi, se vi cambio per  Dio, non merito il nome di figlio disobbediente e ingrato. Fuggo il mondo per non dare nelle sue reti. Senza la fuga non potrei restare libero dalle sue lordure. Addio, padre caro, cara genitrice, addio. Abbiate ferma speranza di rivederci pei meriti infiniti di Gesù Cristo, Redentore nostro, nell’altra vita in Cielo.

            Il figlio vostro Nicolò.” [6]

        La sua prima meta fu una delle tante cavità presenti fra le colate laviche che sovrastavano la sua città natale. Questa grotta è stata successivamente identificata con quella situata in località Aspicuddu, divenuta uno dei luoghi di culto del Santo in quel territorio. Grande dovette essere lo smarrimento  di Nicolò nel ritrovarsi improvvisamente catapultato dagli agi della sua ricca dimora in un luogo tenebroso, impervio, privo di tutto, ma altrettanto grande era la sua determinazione nel seguire il suo disegno di vita. In questo luogo egli superò i dubbi dei primi possibili ripensamenti, sperimentò, attraverso la preghiera, la dolcezza di Dio come Padre, vincendo la grande nostalgia che in un adolescente era naturale che affiorasse nei confronti dei suoi cari genitori. Imparò a procurarsi il cibo, a sopportare la fame e gli stenti, a soffrire per tutte le privazioni che quello stato di vita gli imponeva. Trascorsero così tre anni, ma i progetti di Dio sul suo servo fedele dovevano spingere Nicolò ancora oltre.

            Il padre non si era rassegnato alla scomparsa del figlio e lo aveva sempre cercato con insistenza ed ostinazione. Finalmente gli era stato riferito che un giovane dalle fattezza e dell’età  di Nicolò era stato intravisto nei pressi dell’Aspicuddu ed Almidoro si apprestava a far setacciare la zona.  Nicolò, accortosi di quanto stava avvenendo, non ebbe dubbi, lasciò tutto  e, armato solo del suo bastone crociato, si mise di nuovo in viaggio. Giunse presso l’abitato di Maniace e qui trovò ospitalità nel monastero basiliano del luogo[7], presumibilmente quello dedicato alla santa Madre di Dio, facendo un incontro che lo avrebbe segnato per tutta la vita, quello con il padre basiliano Lorenzo da Frazzanò. E facile immaginare il sollievo provato da Nicolò grazie all’accoglienza riservatagli da quei frati, soprattutto a livello spirituale, dopo tante durissime prove affrontate  in estrema solitudine. Qui egli poté accostarsi ai sacramenti e trovò nel giovane padre Lorenzo una valida guida per il suo cammino. I due, infatti, partirono  verso la parte settentrionale dei monti Nebrodi, percorrendo  insieme la gran parte del viaggio finché, arrivati nei pressi del Pizzo di Moèle, non giunse l’ora di dividersi: Lorenzo sarebbe rientrato nell’abbazia di Fragalà, Nicola, su consiglio dell’amico Lorenzo, sarebbe sceso lungo la vallata rocciosa del fiume Ghida, dove avrebbe potuto trovare un rifugio sicuro e , soprattutto, avrebbe avuto la possibilità di frequentare il monastero di Santa Maria del Rogato, posto sul versante sinistro della vallata, un monastero presso il quale dimorava il padre Cusmano di Alcara, un monaco che per la sua cultura e per la sua profondità spirituale era soprannominato “Il Teologo”. I due amici si abbracciarono non senza la speranza di potersi rivedere. Nicolò, già provato per i tre anni di stenti, era sfinito per il lungo viaggio. Le notizie biografiche attribuite al Monaco contemporaneo del santo, a questo punto, affermano che giunto egli in una landa rocciosa ed arida, sfinito per la sete, invocò l’aiuto di Dio e “avvertito di percuotere con il bastone una pietra, fece sgorgare da una roccia una sorgente, capace anche di guarire le malattie” [8]. Ancora oggi questa sorgente, inglobata in una cappella, è meta di pellegrinaggi comunitari. Nicolò, confortato dalla presenza amorevole di Dio, trovata poco distante una grotta solitaria, decise di porre là il suo eremo: per trenta lunghi anni quella sarebbe stata la sua casa e, per tutti i secoli a venire, essa sarebbe diventata la meta più amata e visitata dai suoi devoti alcaresi, adraniti e non solo.  

            Qui, grazie alla lontananza da casa, Nicolò non ebbe più timore di uscire dalla sua totale solitudine e cominciò a frequentare ogni settimana il monastero di Santa Maria del Rogato, distante alcuni chilometri dal suo eremo. Fu intenso il sodalizio spirituale da lui vissuto con il Teologo Cusmano, come ci testimonia l’inno di lode che quest’ultimo compose per lodare le virtù eroiche di Nicolò, chiamandolo  “pastore”, “sole risplendente” , “splendore che mai tramonta”[9].

Nicolò giunse nella grotta del monte Calanna a venti anni, nel 1137, rimanendovi fino alla morte, avvenuta trent’anni dopo : questa grotta fu dunque il luogo in cui l’eremita trascorse la parte  più florida della sua vita, lì si consumò tutta la sua giovinezza e la sua maturità. Cosa dire sul modo in cui trascorse le sue giornate? Come poter immaginare tanti anni di solitudine? Noi possiamo solo tentare di ricostruire alcune di quelle che furono le componenti essenziali di questa sua singolarissima esistenza. Egli scelse di fare quella vita per amore verso Cristo Gesù e, quindi, non possiamo immaginare un solo giorno di questa vita senza che Nicolò entrasse in relazione con Lui, attraverso la preghiera, la meditazione della Parola di Dio, il compimento del suo quotidiano lavoro per sopravvivere. Sul suo modo di preghiera sappiamo molto, essendoci pervenuta una significativa parte del libro di preghiere che egli utilizzava, contenente orazioni riconducibili all’Ufficiatura greca propria dei monaci basiliani, con i quali il legame doveva essere organico, tanto che si può ragionevolmente affermare che Nicolò dovette essere un basiliano “dal piccolo abito”, una sorta di monaco anomalo che, pur legato alla regola basiliana, non faceva vita comunitaria. Ciò potrebbe essere confermato anche dal colore della tunica con la quale venne trovato, alcuni frammenti della quale sono ancora custoditi nell’urna delle reliquie e che tutta l’iconografia originaria ci presenta di tinta turchina, il colore dell’abito basiliano, appunto.

        L’inno del Cusmano ci riporta una preghiera che Nicolò innalzava alla Trinità Divina costantemente:

“O Padre, o Figlio, o Spirito Santo, ascolta la mia preghiera, perché io che mi trovo in questa solitudine ho riposto solamente in Te tutte le mie speranze: ti prego, quando lascerò questa vita, accogli l’anima mia” . 

Molto intenso era anche il legame con la Madonna che Nicolò invocava con gli appellativi più alti e più dolci, chiamandola “Purissima Vergine”, “Madre dell’Onnipotente”, “Vergine Madre di Dio”, “Immacolata”.[10] 

Nicolò, quindi, non era solo, perché con la preghiera egli era costantemente in comunione con il suo Dio, con la Madonna, con i Santi. Un’altra componente della sua preghiera, che si può dedurre dall’inno del Cusmano, è quella dell’intercessione: Nicolò era sì isolato dal mondo, ma non si  dimenticava di noi uomini, poiché pregava “con zelo Dio affinché ci elargisse la sua Grazia”.

            Gli anni passarono e Nicolò ne sentiva sempre più il peso. Nell’estate del 1162, la tradizione, raccolta da molti biografi, pone un momento speciale di questa straordinaria vita: Nicolò e Lorenzo da Frazzanò, dopo un quarto di secolo, si incontrano di nuovo al Rogato e, a riprova dell’immensa gioia e della profonda amicizia che il santo eremita prova nei confronti di Lorenzo, lo invita a trascorrere una giornata nel suo eremo che fino ad allora era rimasto segreto a tutti. Il pio padre basiliano sente l’approssimarsi della sua morte che, per un santo, non è un momento di tristezza, bensì di immensa gioia, perché rappresenta il momento certo dell’incontro con Dio tanto amato e cercato durante la vita terrena: egli lo comunica all’amico Nicolò suscitando in lui, certamente, una grande tristezza, subito compensata, però, da quella stessa gioia che Lorenzo lasciava trasparire nel comunicargli la notizia. Trascorsa una giornata nella preghiera di lode a Dio, i due si lasciano, non senza la forte speranza di incontrarsi di nuovo nel regno dei cieli.

            Si apre l’ultimo scorcio dell’esistenza terrena del nostro santo eremita. Nicolò, nonostante si avvicinasse ormai ai cinquanta anni, continuava a seguire i ritmi consueti della sua vita di penitente, patendo gli stenti dell’eremitaggio e continuando a recarsi al Rogato per la confessione settimanale e per partecipare alla celebrazione eucaristica. Il dialogo col Cusmano, anch’egli ormai anziano, si fa sempre più fiducioso e sempre più proteso verso il passaggio alla vita eterna nella quale il fedele servo di Dio spera di raccogliere il premio sperato. E finalmente, l’ora tanto agognata arriva. Siamo giunti all’agosto del 1167, Nicolò è sempre più stremato, tuttavia non si astiene, in occasione della solennità della festa dell’Assunta, del 15 Agosto, di recarsi, con le ultime forze che gli restano, al monastero del Rogato. Anche Cusmano, vedendolo in quelle condizioni capisce che l’amico è arrivato, ormai, alla meta per la quale aveva speso tutta la sua vita. Quest’ultimo incontro tra i due che ormai condividevano anche le pieghe più recondite del proprio spirito, diventa quasi un’anticipazione della beatitudine del Paradiso: anche tra loro il distacco da un lato è colmo di nostalgia per la intensissima comunione spirituale vissuta durante l’arco di trent’anni, nella quale l’uno traeva giovamento dalle conquiste ascetiche dell’altro, dall’altro lato, nella certezza della fede, esso è allietato da una celeste felicità. Cusmano vorrebbe accompagnarlo, stargli vicino nell’ora suprema, ma Nicolò riafferma la scelta della totale solitudine fino alla fine. Il viaggio di ritorno è penoso; giunto lo stremato eremita nei pressi della contrada Angari, si accascia a terra, privo di forze, lungo un sentiero battuto dalla gente di campagna. Ed ecco sopraggiungere due donne , con i loro cesti ricolmi di frutti: Nicolò chiede loro di donargliene qualcuno per rianimarsi: alla richiesta una donna nega sdegnata, mentre l’altra, mossa da compassione, gli offre tutto il suo cesto. La tradizione, ripresa pure dalla già citata fonte del Caietani che definisce le due donne “testimoni della morte e della vita del Beato Nicola”,  dice che alla donna generosa i frutti abbondarono per molti giorni, mentre, alla donna ingrata, i frutti marcirono fino a diventare immangiabili. Sul luogo dell’incontro, secoli addietro fu costruita una edicola con all’interno un quadretto che ricorda questo avvenimento.

            “ Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola” [11]: dovette essere questo il tema ricorrente nella preghiera di un uomo che aveva vissuto un’esistenza come quella di Nicolò, e la pace, la pace vera, quella del cielo, già pregustata nell’antro dell’eremo, finalmente abbracciò il suo spirito e Nicolò andò incontro al suo amato Signore. Era il 17 Agosto 1167, e le campane bronzee della Chiesa di Alcara, “nulla vi humana pulsae”[12], suonarono a festa, senza che nessuno si rendesse conto di quanto era successo. Trascorsi alcuni giorni, un pastore, tale Leone Rancuglia, spinto nel luogo della grotta di Nicolò dalla ricerca di un bue che gli si era smarrito, trovò il corpo dell’eremita, ancora in ginocchio, con le mani attaccate al bastone crociato e con gli occhi, ancora aperti, rivolti al cielo. Grande dovette essere la sua impressione, trasformatasi in paura allorquando, toccando il corpo, gli si paralizzò il braccio: capì allora che doveva trattarsi del corpo di un  uomo santo e corse in paese a dare la notizia all’arciprete. Tutto allora fu chiaro, venne organizzata una sorta di processione fino al luogo del ritrovamento, presso il quale, ancora in maniera miracolosa, il braccio di Leone guarì. Il corpo di Nicolò divenne subito oggetto di venerazione, venne caricato su una bara e trasportato alla volta del paese. A questo punto la tradizione pone un  nuovo prodigio. Giunto, infatti, il corteo nei pressi della Chiesa di Sant’Ippolito, la bara divenne pesantissima e dovette essere deposta a terra, essendo apparso vano ogni tentativo di continuare, finché un fanciullo gridò di trasportare il corpo al Rogato: i portatori risollevarono la bara, divenuta di nuovo leggera, e  fecero come aveva loro detto il fanciullo. Al Rogato il corpo dell’eremita venne riconosciuto dai monaci ed, in particolare, dal suo confessore, il padre Cusmano che, vista la situazione, rivelò a tutti la straordinaria vita del suo amico Nicolò, annotandola anche per iscritto. Qui il corpo del santo eremita rimase per ben 336 anni, fino al 1503, continuando ad essere, ininterrottamente, oggetto di culto spontaneo da parte dei fedeli, non solo alcaresi.  Il 10 Maggio del 1503, a causa di una lunghissima siccità il popolo alcarese, in supplice preghiera, si recò al Rogato per implorare l’intercessione del santo eremita: puntualmente la pioggia cadde abbondante e si gridò pubblicamente al miracolo, e ad esso, che certo non era stato il primo,  se ne aggiunsero degli altri. A questo punto gli alcaresi decisero di chiedere alla Santa Sede il riconoscimento ufficiale della santità di Nicolò e del suo culto. Venne redatta una supplica al Santo Padre[13], nella quale si illustrava la vita eroica di Nicolò ed i miracoli per sua intercessione verificatisi, e venne inviata a Roma tramite due delegati, il sacerdote Antonio Rundo ed il concittadino Giovanni Cottone, a spese della collettività alcarese. Finalmente, dopo un periodo di traversie, il sette giugno del 1507, i due alcaresi ottennero dal Papa Giulio II l’emissione di un Breve Pontificio che riconosceva la santità di Nicolò Politi e ne autorizzava pubblicamente il culto.

Da allora ben cinquecento anni sono passati e la venerazione nei confronti di San Nicolò Politi non si è mai più spenta nei suoi fedeli devoti, anzi essa è cresciuta sempre più, facendosi più matura ed autentica, rivolta a scoprire e contemplare la dimensione autenticamente evangelica di una testimonianza di vita così unica, così straordinaria e così ammirevole.

 

Alcara li Fusi, Luglio 2006                                                                 Orazio Antonino Faraci  


 

[1] Tale inno è riportato da Ottavio Caietani, in “ Vitae Sanctorum Siculorum”, nel capitolo riguardante la vita di San Nicolò Politi, pubblicato a Palermo, nel 1657, presso la Tipografia Cirillo. L’inno fu fatto pervenire al Caietani in traduzione italiana dagli alcaresi che lo avevano recuperato da un codice greco ritrovato presso il monastero, semidistrutto, di Santa  Maria del Rogato, presso Alcara.

[2] Ottavio Caietani, nell’opera sopra citata, in Animadversiones in vitam S. Nicolai Eremitae, afferma che a scrivere la biografia originaria di San Nicolò Politi, fu il monaco anonimo che era stato uno dei suoi confessori del monastero di Santa Maria del Rogato. Precisa, inoltre, di seguito, che la vita fu arricchita dalla cronaca dei moltissimi miracoli compiuti dal santo, tratti dai riferimenti contenuti nel suo antico ufficio. Fa riferimento , infine, ad un’altra biografia di autore incerto, ma degno di fede.

[3] Merlino Placido, Lu Niculau Eremita, poema siciliano in ottava rima ed in otto canti, Tip. Giacomo Di Matteo, 1652, Messina.

[4] L’anno esatto della nascita si può costruire a ritroso, partendo dalla data della morte, il 1167, che viene dedotta dal Caietani nell’opera citata. Partendo dal presupposto che tutta la tradizione attesta che la vita di san Nicolò è durata cinquanta anni, è facile arrivare al 1117.

[5] Cfr. Cantico dei Cantici, v. 8,7.

[6] Il testo è del Sac. G. Oriti, Arciprete, contenuto in “Della vita, del culto e dei miracoli di San Nicolò Politi, Protettore della città di Alcara li Fusi, Tip”. Dante Alighieri, Riposto, 1914. E’ chiaro che si tratta di un testo costruito dall’autore, ma come non ritenerlo del tutto verosimile?

[7] Sulla denominazione e sulla esistenza, in quell’anno, di un monastero basiliano in quel di Maniace, cfr. Gaetano Morelli, San Nicolò Politi, Patrono di Alcara, Tipografia D’Amico, Messina, 1967, pagg.20 - 25. Oppure, sulla stessa questione e sulla veridicità dell’incontro con San Lorenzo: Don Alfio Conti, Un eremita a Parigi?,  Tipolitografia Ricca, Adrano (Ct), 2005, pagg. 82 - 86.

[8] Cfr. Ottavio Caietani: op.cit.

[9] Cfr. Ottavio Caietani: op. cit.

[10] Cfr. Traduzione della pergamena alcarese contrassegnata con la lettera greca “iota”, da me effettuata in uno studio contenuto nell’appendice n.1 al Testo di Giuseppe Stazzone, “Acqua Santa. San Nicolò Politi”, a cura del Comitato di San Nicolò Politi 1993/1994. Tip. Lo Presti Gina. Capo d’Orlando.

[11] Cfr. Luca 2,29 ( E’ l’incipit del famoso “Nunc dimittis”, il Cantico di Simeone).

[12] “ Non mosse da alcuna forza umana”  Cfr. Caietani, op. cit.

[13] La Supplica degli alcaresi al Papa è conservata in foto originale presso l’Archivio Parrocchiale della Chiesa Madre di Adrano. Dal Documento si risale alla sua catalogazione presso l’Archivio segreto Vaticano: Reg. Suppl. 1250, pag 301, fascicolo XV del Libro X, Anno IV. L’anno IV si riferisce al quarto anno di Pontificato di Giulio II, cioè il 1507, e probabilmente, esso è l’anno in cui la Supplica venne recepita e registrata.